Oggi doppioverso compie due anni. Certe date restano scolpite nella memoria: il giorno dell’uscita del primo post eravamo così galvanizzate, dopo aver cliccato “Pubblica” insieme, manina su manina stretta attorno al mouse del portatile catorcio di Chiara, che quando siamo uscite dal portone lei ha scaraventato per errore la spazzatura nel bidone insieme alle chiavi della macchina, e per andare a prendere le figlie a scuola ha dovuto rovistare un quarto d’ora tra l’immondizia.

In questi due anni il nostro non è stato un percorso lineare. Abbiamo cambiato spesso direzione, accelerato, subito fastidiose battute d’arresto, e ci siamo confrontate con vari ruoli: traduttrici, produttrici di contenuti per il web, formatrici e organizzatrici di eventi.

La parte più difficile – e quella che via via si sta rivelando sempre più macchinosa – è conservare e rinegoziare costantemente l’entusiasmo di quel primo giorno. Ogni volta che ci vediamo, che ne parliamo, quell’adrenalina torna, le idee saltano fuori come conigli dal cappello di un prestigiatore, e insieme ci sembra di vedere più chiaro e più lontano. Paradossalmente però, proprio ora che il mazzo che ci siamo fatte su questo blog inizia a dare i suoi frutti (negli ultimi mesi tante nuove opportunità sono nate grazie a doppioverso) la stanchezza si fa sentire: ironia della sorte, la visibilità e i contatti conquistati attraverso questa avventura di coppia hanno finito per dare un nuovo impulso alle nostre carriere individuali, che procedono sempre più lungo due binari perfettamente paralleli. Esplorando nuove direzioni abbiamo scoperto da un lato che ci piacciono cose diverse e che ambiamo quindi a fare cose diverse, dall’altro che in realtà l’una senza l’altra non possiamo stare, perché siamo l’una il coach, il motivatore (a volte anche il pungolo scomodo) dell’altra.

Abbiamo imparato tanto, abbiamo quagliato tanto. E ci siamo rese conto che ogni percorso che abbia almeno un minimo margine di imprenditorialità prevede necessariamente aggiustamenti in corsa, rinnovamenti in itinere, cambiamenti costanti. Abbiamo capito molto sbagliando molto, ovviamente, perché poi è così che si impara meglio: ma se potessimo, a voi che magari cominciate oggi (e alle noi che siamo state), risparmieremmo molti di quei passi falsi, di quelle strade senza via d’uscita, infonderemmo insomma un po’ della (ancora scarsa, ahinoi) saggezza accumulata in questi due anni. Perché ci sono, in fondo, dei piccoli accorgimenti da tener presenti, dei consigli della nonna, pragmatici e quasi banali ma chissà perché sottovalutati, per imparare una nuova vita, un nuovo lavoro, senza perdersi troppo per strada. Solo che noi, quando abbiamo iniziato, non li conoscevamo.

Se potessimo tornare indietro nel tempo e dire qualcosa alle noi stesse del 13 gennaio 2015, intente a rovistare nella spazzatura, diremmo probabilmente di abbandonare questi cinque comportamenti autosabotanti:

 

1) Lasciare che le ansie a lungo termine inghiottano i piccoli passi

Questo ci è venuto in mente guardando l’altro giorno un video di Marco Montemagno, che proponeva tre consigli per svegliarsi la mattina presto (noi siamo impastate di sonno e stanchezza, ecco perché siamo sempre in cerca di formule magiche che combattano la fiacca atavica, o almeno di qualche tutorial di YouTube che funzioni). Be’, anche Montemagno sostiene di essere un pigro assurdo, e malgrado ciò di svegliarsi TUTTE le mattine alle cinque e mezza per andare a correre. Come ci riesce? Concentrandosi sui micro-obiettivi (aprire gli occhi, scendere dal letto, vestirsi, aprire la porta ecc.) e non sul fatto che deve andare a correre. A un certo punto, dice, ti ritrovi in strada vestito da runner e che altro puoi fare se non partire? Un buon consiglio è quindi smettere di sentirci costantemente schiacciati dal peso cosmico del macro-obiettivo, senza pensare ai baby-steps, al giorno per giorno che quasi senza accorgertene ti traghetta al risultato finale.

 

2) Credere di essere “inaiutabili”

Avete presente il tipo, no? La mamma supersprint che anche se ha 40 di febbre dice a tutti “sto bene” e continua a fare lavatrici. L’amico che ci sembra sempre in formissima, con tutta la vita perfetta come una pagina di Instagram, che un giorno crolla e ci dice che è stato licenziato da sei mesi ma non ce l’ha detto “per non farci preoccupare”. Noi due all’inizio eravamo un po’ così. Nel calderone delle cose da fare, che avremmo voluto fare, che ci toccava fare, mettevamo di tutto: impegni urgenti, importanti, sciocchezzuole, piccoli favori, lavori dalla mole spaventosa, progetti entusiasmanti per cui non avevamo tempo… il problema, ci siamo rese conto andando avanti, non era tanto il famigerato “non riuscire a dire di no a nessuno”, ma la convinzione di essere, appunto, inaiutabili. Noi potevamo farcela, ce l’avremmo fatta, non preoccupatevi per noi, grazie mille, non sono occhiaie, è un nuovo trend.

Ci è voluto un po’ a capirlo, ma adesso abbiamo una regola (beninteso, averla e seguirla sono due cose diverse): se non ce la facciamo, chiediamo aiuto. Se non è importante, deleghiamo. Se non è urgente né importante, pensate un po’, arriviamo addirittura a dimenticarcene.

 

3) Farsi abbattere dallo “slow business”

Quelle due tipe lì, quelle piccole fiammiferaie tremebonde che cliccavano “Pubblica” nella cucina di Chiara, non vedevano l’ora di lavorare, tanto, tantissimo, subito! E come ogni libero professionista che coltivi un sogno del genere, avrebbero avuto un gran beneficio a sentirsi dire questo: il lavoro di un freelance è fluttuante. Ci saranno momenti in cui si lavorerà molto (troppo, n.d.a.), e periodi, lunghi, strazianti, in cui tutto sarà più piatto di una superstrada in Arizona. Mai lasciarsi abbattere, però. E non tanto perché “Bisogna tenere duro, se puoi sognarlo puoi farlo” o altre melensaggini fuorvianti alla Disney: piuttosto, perché la strisciante depressione del disoccupato è come la proverbiale palla di neve sul fianco della montagna, tende a ingigantirsi se non viene fermata. Quindi, quando il lavoro scarseggia, l’ideale è capire subito che le cose non stanno girando per il verso giusto, fare un bel respiro, rinegoziare con se stessi o col mercato, agire per uscire dal pantano.

 

4) Accettare lavori che non facciano crescere

La storia “non siamo scimmie, non lavoriamo per due noccioline” l’abbiamo ripetuta fino alla nausea, perché è sacrosanta: la cosa peggiore che un freelance possa fare per se stesso è accettare lavori malpagati o non pagati. Ma il problema con i lavori “un tanto al chilo” non è solo che non vi permettono di pagare le bollette, quanto soprattutto che non vi permettono di crescere come professionisti.

Prendiamo un traduttore freelance: mentre macina cartelle e cartelle per un’azienda o una realtà editoriale di bassa lega, dove nessuno si cura di aiutarlo a migliorarsi, il poveretto (o, più facilmente, la poveretta) che ha accettato quel lavoro non sta costruendosi un curriculum. Più facilmente sta impantanandosi, o addirittura tuffandosi in un pozzo senza uscita di “traduzioni di scarsa qualità” da cui il prossimo committente si guarderà bene dal salvarlo.

Un altro punto su cui ci siamo trovate d’accordo dopo lacrime e sangue lasciate sul campo della traduzione editoriale: non scegliamo più i clienti sulla base di chi è disposto a darci subito lavoro, li scegliamo (anche) in base al fatto che lavorare con loro arricchisce il nostro portfolio e rende il nostro profilo più appetibile per il prossimo cliente. Risultato? Ci avviamo verso l’eliminazione delle noccioline (a parte quelle che sgranocchiamo all’aperitivo).

 

5) Finire l’anno come lo si è iniziato

Se c’è una cosa che a doppioverso siamo brave a fare è reinventarci: non siamo mai state ferme per più di qualche settimana, non abbiamo mai fatto passare troppo tempo prima di scovare un nuovo progetto da intraprendere, un ramo secco da tagliare, una rubrica da eliminare o un aspetto del sito da modificare.

Ogni dicembre, da quando abbiamo iniziato quest’avventura, ci siamo guardate indietro davanti a un cappuccino e abbiamo detto: Wow, quante cose abbiamo fatto! E a gennaio, pochi giorni dopo, davanti a un altro cappuccino, ci siamo chieste: e adesso dove si va? Cosa si cambia? Come ci si rinnova? Quali errori possiamo evitare in futuro?

Perché poi alla fine la verità è questa: tutto ciò che diremmo alle due tizie del cassonetto glielo diremmo perché le conosciamo, e sappiamo che certi errori li commetteranno eccome. Però noi abbiamo fiducia in loro: vedrete tra un paio d’anni dove saranno arrivate. 🙂

 

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