Cari amici, oggi vi racconterò una storia.
Dovete sapere che qualche giorno fa una mia amica e collega, di cui per ragioni di privacy non posso fare il nome e che quindi chiamerò Voldemort (ma che voi, psssst! potete immaginare alta, snella e con gli occhioni azzurri), mi ha chiamata e mi ha detto, col labbruzzo tremante: “ODDIOBARBARANONCIPOSSOCREDERE. Sai quella domanda per quel lavoro che avevo fatto? È andata bene! A me! Capisci? Bene!”.
Io, da brava amica (lei sarà una Voldemort, ma io sono per natura una Weasley, fedele come un labrador) ho esultato ed evocato un patronus per festeggiare. Non potevo prevedere che, dopo due secondi di euforia, lei commentasse con un filo di voce: “…sì, ok, e se poi faccio un casino e non mi chiamano mai più?”.
La sindrome dell’impostore
La mia amica Voldemort, dovete sapere, soffre di una forma gravissima di sindrome dell’impostore. Tutto ciò che dice, fa, propone, soprattutto in ambito lavorativo, viene passato al vaglio di tormentosi “E se poi non va bene? E se non sono in grado? E se si accorgono che non sono capace? E se capiscono che non sono brava come dico?” (suona familiare? Non mi stupisce affatto).
La sindrome dell’impostore è stata teorizzata alla fine degli anni ’70 e consiste, come si evince dalle sofferenze di Voldemort, nel dubbio incessante di non essere all’altezza delle aspettative proprie e altrui, e nella paura invalidante che prima o poi si possa essere smascherati per gli imbroglioni che si è e quindi puniti. Si distingue dall’ansia da prestazione perché chi ne è affetto tende ad attribuire ogni buon risultato ottenuto al caso, alla fortuna o all’incapacità altrui. Se la realtà lo smentisce regalandogli successi e riconoscimenti, l’impostore tende ad agitarsi ancora di più, convinto che più la posta in gioco è alta più la caduta sarà dolorosa. Per metterla come ho detto a Voldemort, è come se quando l’universo ci indica di mettere la freccia a destra e svoltare in “via di quelli che possono rilassarsi, perché ehi, sono bravi”, noi continuassimo a pensare: “mah, forse è meglio imboccare via degli sfigati” e andassimo a sinistra.
La sindrome dell’impostore è in sostanza il contrario dell’effetto Dunning-Kruger, quel fenomeno per cui le persone incompetenti, proprio in virtù della loro incompetenza, non si accorgono di essere incompetenti. La traduzione scientifica della beata ignoranza, insomma: molto gradevole, a ben guardare, anche se perniciosa.
Checché ne dica io quando sono al telefono con Voldemort, la sindrome dell’impostore è diffusa a livello globale e, a quanto pare, sta assumendo i caratteri di un’epidemia. Secondo uno studio di BBC News, nessuno è immune: nel nostro mondo ipercompetitivo e caratterizzato dall’esposizione pubblica costante di ogni minimo errore, potrebbe colpire virtualmente chiunque (ne soffrono anche personaggi insospettabili, realizzati e ambiziosi. Ce l’aveva anche la poetessa Maya Angelou, che così la descriveva: “Ho scritto 11 libri ma ogni volta che ne esce uno nuovo mi vene da pensare: ‘Oh-oh, adesso scoprono la verità. Ho preso in giro tutti finora, ma stavolta mi beccano.” La musicista Amanda Palmer chiama la sua convinzione di essere riuscita a cavarsela per il rotto della cuffia la sua personale “polizia antifrode”.)
A ciascuno il suo: le due varianti
Esistono a mio parere due varianti parimenti dannose della sindrome: la prima, più classica, è quella di cui soffre Voldemort, ovvero la variante “Iddio uccidimi/Non son degno di te non ti merito più”. La seconda, della quale posso vantarmi di essere una rappresentante d’eccellenza, è la variante Rossella O’Hara, ovvero: “Non posso pensarci adesso, sennò impazzisco. Ci penserò domani. Dopotutto, domani è un altro giorno.”
Voldemort ha il terrore che, una volta portato a termine il lavoro, qualcuno possa deridere i risultati e farsi beffe della sua incapacità, in una sana, buona, tradizionalissima paura del rifiuto (dovresti provare a collezionarli, le ho suggerito io dopo aver letto uno splendido articolo secondo cui puntare a ottenere un numero determinato di rifiuti ogni mese/anno è più produttivo e meno ansiogeno che provare a ottenere dei successi, il perché e il percome lo vedete qui).
Nel suo caso il dramma si innesca perché l’aspirazione alla perfezione cozza malamente con il fatto che ciò che produce finirà in pasto a un pubblico di potenziali critici. Mettere le mani avanti (“Non so se ho fatto bene; non sono sicuro; se non va posso correggere”), diventa allora un modo per ammorbidire l’eventuale giudizio, per prepararsi alla mazzata.
Per quanto riguarda invece la schiera di procrastinatori a cui mi fregio di appartenere (ehi, crederete mica che questo post sia stato scritto nell’arco di una settimana? Voldemort mi ha detto: giramelo non oltre mercoledì pomeriggio e sono orgogliosamente qui, mercoledì alle 13.37, a impostare la prima stesura) il dramma parte sempre da una irrealistica tendenza alla perfezione, ma si manifesta in modo diverso. Invece di svolgere il lavoro, consegnarlo e poi attendere LA MORTE, noi preferiamo non farlo proprio e rimandare all’infinito, finché non è troppo tardi o quasi. La procrastinazione, del resto, è la cugina perversa della sindrome dell’impostore. Se io so che la traduzione ideale a cui aspiro è tutt’altro che simile a quella che sto producendo, non è forse meglio ignorare la traduzione e controllare le quotazioni di Trump in America o l’ultimo video di Beyoncé che spacca il vetro della macchina del marito fedifrago? Noi procrastinatori funzioniamo secondo la celebre, geniale, inarrivabile striscia di Calvin e Hobbes, per cui per lavorare bene abbiamo bisogno del giusto mood, ovvero il panico dell’ultimo minuto.
Perché i traduttori si sentono più impostori di altri?
Ma a parte me e Voldemort, chi è che soffre di questa tendenza invalidante che non è un vero e proprio disturbo mentale e però è gradevole come un dissennatore nel letto? Sembrano esserne facili vittime le donne che lavorano in ambito creativo (o in ambienti fortemente maschilisti), portate all’introspezione e al pensiero critico (e autocritico), che tendono a mettersi in discussione, che svolgono compiti che danno loro poca visibilità, che hanno un forte senso del dovere e che sanno che il loro apporto creativo verrà sottoposto al giudizio altrui.
La descrizione perfetta dell’80% dei traduttori, insomma. E infatti se fate un giro sui blog e le bacheche di FB dei nostri colleghi, il concetto appare un po’ ovunque con allarmante regolarità. Sembra quasi che il fenomeno sia endemico della nostra specie, che i traduttori si siano ormai rassegnati a portare questo fardello, e a farne, in alcuni casi, una sorta di vessillo, una medaglia al valore. Del resto, racconta spesso chi confessa di soffrirne, non è forse naturale che ci si senta così? Se è vero che noi traduttori siamo creature introverse, poco visibili, che tendono a mettersi in discussione, non è forse ovvio che finiamo per mettere in dubbio il nostro valore, che precipitiamo negli abissi dell’insicurezza?
Non so perché, ma questa visione mi ha sempre convinto poco. C’è sicuramente una certa dose di predisposizione nel non sentirsi mai abbastanza capaci, ma non credo che questo possa spiegare tutto. Ci sentiamo impostori, è vero, ma in molti casi sappiamo di essere bravi. Cos’è, allora, che ci impedisce di riconoscerlo, di accettarlo, di processarlo, di digerirlo, per così dire?
Inventare soluzioni creative per mestiere
Non lo so con esattezza, ma io resto convinta che non diventiamo “impostori” perché siamo insicuri; piuttosto, lo diventiamo perché la nostra professione ci richiede un compito improbo. Per chi fa un mestiere come il nostro, lavorare significa sostanzialmente inventare nuove soluzioni creative 365 giorni l’anno. Non c’è mai una giornata di lavoro di routine, a cervello spento; non potremo mai smettere di rispondere all’autore che traduciamo, al lettore che si ergerà magari a critico di traduzione dall’alto di una recensione di Amazon, ai colleghi che ci stroncheranno; non arriverà mai l’anno in cui potremo mandare creatività e ingegno in pensione. E di fronte a questa necessità di spingerci sempre un pezzetto più avanti, di non cedere mai alla pura resa lavorativa di sopravvivenza, è normale trovarsi ogni tanto schiacciati dalle aspettative.
Bill Watterson, il geniale autore delle strisce di Calvin e Hobbes, teneva in gran considerazione le fatiche di chi svolge lavori intellettuali. Per questo riteneva importante portarli avanti solo finché li si ritiene divertenti, finché si riesce a introdurvi ogni giorno un elemento giocoso (e forse per questo un giorno di qualche anno fa, all’apice del successo, ha detto addio per sempre alle sue due creature con una tavola tanto strappalacrime quanto ottimista). Nel lavoro creativo, secondo lui, non sapere dove siamo diretti, e se stiamo andando nella direzione giusta, è la norma. Confrontarci ogni giorno con un foglio bianco, una nuova traduzione, un romanzo da scrivere, un sé nuovo di zecca, è esattamente ciò che ci viene chiesto dai nostri committenti. Ci viene chiesto di partire senza sapere esattamente dove andremo a parare, accettando di sapere dove siamo finiti solo una volta che il viaggio sarà terminato e potremo guardarci indietro. Il paradosso è che, nonostante questo ci spaventi, fermarsi è impossibile, perché per Watterson la mente è come la batteria di una macchina: si ricarica solo quando è in funzione.
È questa tensione, secondo me, che ci logora, che ci fa dire al telefono all’amica Weasley: “Ti chiedo solo questo poi non ti disturbo più per sei mesi: credi davvero che io sia in grado?”, che ci fa cercare “solo un altro video di gattini”.
E se fosse parte del processo?
Una creatività costante, efficiente, funzionale, rigorosa, incanalata, senza soste: sfido chiunque a non avere le vertigini. La cosa straordinaria è come riusciamo, nonostante questo costante tirare i remi in barca, a fare ciò che facciamo. Forse, ho pensato oggi in un attimo di lucidità solidale, è il caso di accettare che sentirsi sempre meno che all’altezza fa parte del processo per farle, quelle cose che facciamo.
In un recente articolo la romanziera Laila Lalami sostiene qualcosa di molto simile: ovvero che procrastinare fa parte del processo creativo. Che le è indispensabile per lavorare, e che per continuare a lavorare dovrà imparare ad accettarlo. Che può arrabbiarsi con se stessa perché non si sveglia tutti i giorni alle sei come altri colleghi, e perché una volta sveglia passa ore su Twitter, ma questo non cambierà le cose: il suo modo zoppo di procedere è comunque un modo di procedere.
La sindrome dell’impostore, in fondo, funziona allo stesso modo. Fa parte di un modo di procedere, e ci costringe ad alzare sempre l’asticella. C’è sempre un nuovo rifiuto da digerire nel lavoro di traduttore, un nuovo lavoro che pensiamo di non saper fare, un nuovo collega che si fida di noi, un nuovo contratto per cui pretendiamo un compenso più alto pur pensando che forse non lo meritiamo. E ciascuna di queste cose è un’occasione per assicurarci che stiamo procedendo: non possiamo morire/cambiare lavoro/ rinunciare finché abbiamo ancora qualcosa da dimostrare, un traguardo da raggiungere, un auto-giudizio negativo da smentire; in fondo, dunque, non sentirsi all’altezza è un altro modo per mantenersi ottimisti. Imparare a calcolare questo aspetto del nostro lavoro come una variabile simile a tante altre significa in sostanza esercitare il muscolo del coraggio, sfidare ciò che temiamo e verificare che sopravviviamo, ogni volta. Essere in grado di riconoscerlo come un rischio del mestiere, qualcosa che dobbiamo mettere in conto e con cui dobbiamo imparare a convivere se dovesse presentarsi (come i calciatori si rassegnano alla possibilità di avere le ginocchia fuori uso prima dei 40 anni) è l’unico modo per non soccombere.
Se è vero, come dicevamo, che scopriremo dove siamo diretti solo una volta che ci saremo arrivati, tanto vale, a questo punto, godersi il viaggio. E consolarsi pensando all’effetto Dunning-Kruger: se siamo spesso tormentati dalla certezza di essere degli incompetenti ci sono ottime probabilità che non lo siamo. E questo vale tanto per noi che per Voldemort. A buon intenditor…