Mi capita spesso di leggere sui social invettive e flame interminabili circa le pessime traduzioni dell’Huffington Post. In effetti sono nella maggior parte dei casi a dir poco imbarazzanti, ed è paradossale visto che molti dei contenuti pubblicati dall’Huffington provengono da fonti estere e i suoi articoli vengono condivisi a manetta ovunque (per dire, solo sulle bacheche dei miei contatti Facebook ogni giorno ne verranno ripostati almeno quattro o cinque, dalle ultime notizie di attualità ai consigli su come scattarsi il selfie più brutto del mondo).
Non ho idea delle dinamiche lavorative interne alla loro redazione, e del delirio che immagino si inneschi inevitabile dovendo gestire e pubblicare in tempi compressissimi una mole tale di notizie. Nella mia testa vedo non più di quattro/cinque redattori al desk, che forsennatamente scrivono, passano e – ahimé – traducono decine di articoli all’ora, ricorrendo quindi anche ai traduttori automatici per poi risistemare i testi alla bell’e meglio andando quindi inesorabilmente incontro a granchi, sviste e rese terrificanti.
Puntare il dito contro il vile costume di “assegnare determinati incarichi a dilettanti e non a professionisti del settore”, però, secondo me coglie solo un aspetto – peraltro assolutamente marginale – del problema. Mi spiego meglio, a costo di risultare impopolare: la vera iattura oggi, nell’editoria come nel giornalismo e in tutti i mestieri legati alla comunicazione in generale, non è tanto il fatto che manchino le professionalità, quanto piuttosto che nessuno abbia più voglia di “formarle”.
Sembra un controsenso – non vi pare? – a fronte della sterminata varietà di corsi, alcuni anche molto validi, che promettono di offrirvi le basi per diventare editor, addetti stampa, redattori, grafici, traduttori, giornalisti. O se lo siete già, di mantenere la vostra qualifica. Sì, perché sia per conservare l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti che per rimanere socio ordinario dell’AITI - l’associazione di categoria che riunisce gli interpreti e i traduttori in Italia e alla quale saremo iscritti in… non so, forse due su cinque di quelli che millantano di fare i traduttori nel nostro Paese? – è necessario dimostrare di aver conseguito un certo numero di punti credito ogni tot anni in ore di formazione e aggiornamento.
Eppure quello che oggi manca, sia da parte delle realtà consolidate che di chi si approccia a questi lavori, secondo me è proprio quello: il senso della “bottega”, dell’imparare un mestiere da chi già lo sa fare, cogliendone i segreti semplicemente standogli accanto, in primis perché quella persona vuole trasmetterti le sue conoscenze. Quindi ok, sarà pure vero che quelli che escono da Scienze della Comunicazione sono tutti uguali e scrivono le mail di presentazione tutte uguali e parlano tutti uguale, ma è anche vero che il più delle volte finiscono per fare i polli in batteria, a macinare notizie e testi senza avere ben chiaro il perché e il percome.
Questo discorso della “bottega” mi vede particolarmente coinvolta perché io ho iniziato a tradurre così. Ho iniziato a tradurre perché a un mio professore era piaciuto come avevo reso in italiano nella mia tesi alcuni passi di un libro non ancora tradotto di un sociologo americano, e siccome lui dirigeva alcune testate, sia online che non, che pubblicavano perlopiù articoli dall’inglese, ha deciso di propormi di tradurre regolarmente per loro in cambio di un fisso al mese a prescindere dal numero di traduzioni che avrei fatto. Alcuni mesi ci guadagnavo io, altri loro. A conti fatti penso di averci guadagnato moltissimo io, a respirare la professionalità dei miei vicini di scrivania.
Di Silvio ho già scritto, ma c’era anche Andrea, un giornalista scientifico incredibile e irriducibile utente Mac (nonché massimo esperto mondiale di Laetitia Casta) che mi ha seguita passo passo e a cui non sfuggivano una ripetizione né un refuso cascasse il mondo. C’era Sara, una biologa dalla dolcezza disarmante col dono assoluto di saper spiegare qualsiasi cosa. C’era Paola, una critica cinematografica pazzesca. C’era Alessandro, con un acume e una profondità di analisi tale che adesso non saprei neanche ridurlo a un’unica specializzazione (ma una nota anche su di lui ce l’ho: era incontrovertibilmente campione olimpionico di canzoni anni Sessanta da fischiettare in motorino). C’era Elisabetta, filosofa col cervello di Schopenhauer e il volto da Madonna. C’era Mauro, che sapeva tutto di musica, politica e non solo ma soprattutto aveva un senso dell’umorismo come non ne avrei mai più incontrati in seguito. E, last but not least, ovviamente c’era lui, Giancarlo, così temibile che all’uscita dal suo primo esame, a 19 anni, ho festeggiato insieme alla mia migliore amica mangiandoci l’anguria sotto il sole a Piazza Esedra al grido di “Evviva, non lo rivedremo mai più!” (ci avrei fatto tre annualità, la tesi, e da lui sarebbe scattato l’innesco di tutta la mia carriera lavorativa, ndr).
Sicuramente mentre scrivo sto scordando qualcuno, ma insomma: il punto è che se non avessi avuto la fortuna di incontrare persone che si sono date la pena di spendere parte del proprio tempo a insegnarmi alcune cose, oggi – che ho dovuto in un certo senso reinventarmi una professionalità dopo essere rimasta un periodo al palo per la colpa di aver fatto due figlie, o meglio di volerci anche passare di tanto in tanto un po’ di tempo dopo averle fatte – non lo so dove sarei.
Bene. A chiusura di questo post Amarcord, visto che forse sono stata un po’ troppo melensa e tanto ormai si sa che ci devo sempre mettere la nota zuzzurellona, vi lascio con due chicche imbarazzanti sul mio periodo a “bottega”, e sulle cazzate madornali che la saggezza e cura dei miei colleghi hanno fortunatamente scongiurato (dai, ero così ggggiovane!):
- Il primo articolo che ho tradotto era una megaintervista di Wired USA a Steven Spielberg, lunga circa 10 pagine. Ecco, a un certo punto lui parlava di questo suo film, Jaws. Che io ho tradotto Fauci. Ricordo ancora la voce imbarazzata di Andrea al telefono (all’epoca lavoravo parecchio da casa perché non mi avevano ancora allestito una vera e propria postazione) mentre mi diceva “Ehm, Chiara, come dire… Jaws sarebbe Lo squalo, hai presente?”
- Altro articolo di Wired USA, altro pezzo lunghissimo su autismo e sindrome di Asperger. Coda dell’articolo, elenco dei personaggi famosi della storia verosimilmente affetti da una di queste patologie. Tra questi, Thelonious Monk. Per me, nientemeno che il MONACO TELONIO. Che non ha prodotto nessuna voce imbarazzata, quanto piuttosto il riso fino alle lacrime con accenni di crisi respiratorie in tutta la redazione. A distanza di 16 anni, ogni volta che ci sentiamo o ci scriviamo per salutarci o farci gli auguri per qualcosa, siamo ancora soliti chiudere con “Che il Monaco Telonio sia sempre con te”, vi dico solo questo.
Ecco, ora tutto ciò proiettatelo al giorno d’oggi. È un attimo immaginare il Monaco Telonio che ride beffardo dalle pagine dell’Huffington Post, rimbalzato dai server e le bacheche di tutto il mondo perché nessuno, nella fretta, si è accorto di lui. Non so voi, a me viene la pelle d’oca solo a pensarci. Non credo che stanotte riuscirò a dormire.
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